mercoledì 9 novembre 2011

Amor cortese:

Nelle raffinate corti francesi dell'XI e del XII secolo nasce la nuova concezione dell'amore (amore cortese o "fin'amor" come si diceva in provenzale), che fu la base della lirica, e più in generale della letteratura romanza fino alla fine del Duecento.

Per comprendere lo sviluppo di questa nuova teoria occorre risalire indietro nel tempo. Il Medioevo aveva ereditato dall'antichità classica la concezione erotica di Ovidio, il "maestro dell'amore sensuale" (lascivi praeceptor amoris), le cui opere ebbero una straordinaria circolazione. Questa concezione ludica e spregiudicata entrò in crisi con la rivoluzione cristiana, che mutò radicalmente i parametri dell'amore, quando i padri della chiesa elaborarono una complessa precettistica che mirava sia a condannare la libertà nei rapporti erotici sia a disciplinare l'amore coniugale. Su questa linea della condanna di ogni passionalità si muovono scrittori ed educatori di parte ecclesiastica (ad esempio Pietro Lombardo e Ugo di San Vittore) fino al XII secolo, cioè nel pieno della cosiddetta civiltà cortese, legata alle corti della Provenza e della Francia settentrionale.

Su una nuova idea della vita, fondata sugli ideali di liberalità, magnanimità, raffinatezza, venne a innestarsi una nuova concezione dell'amore, assai più nobile e intensa di quella che emergeva nelle pagine di Ovidio, autore pur riscoperto e valorizzato in quegli ambienti. Fu allora che fermenti di libertà intellettuale e di tolleranza morale cominciarono a scardinare l'ortodossia cristiana nell'ambito erotico. Questa nuova concezione trovò la sua codificazione nel trattato De amore di Andrea Cappellano vissuto alla corte di Maria di Champagne (fine XII secolo). Per Andrea l'amore è una passione naturale che si origina dalla vista e dal pensiero ossessivo della bellezza di una persona di sesso diverso che fa nascere un intenso desiderio di portare a compimento con volontà concorde tutti i precetti dell'amore, senza escludere il godimento fisico. Questa famosa definizione comporta l'esclusione dell'amore dal rapporto coniugale: l'amore è extra-coniugale perché il vincolo matrimoniale, con la legalità e disponibilità del possesso, elimina la trepidazione che nasce dal desiderio ostacolato; ed è spesso asimmetrico, cioè rivolto ad una donna sposata di rango più elevato del poeta. L'amore è quindi adorazione segreta, intimo vagheggiamento dell'amata, dedizione, servizio, stupefatta contemplazione dell'amante di fronte all'amata, la cui superiorità è sintesi di bellezza fisica (stereotipata nella chioma bionda e nella luce del volto) e di qualità morali. L'amore è sempre esperienza gratificante, anche nell'insuccesso, perché diventa per l'amante, nobile di animo, un itinerario di affinamento interiore.

L'amore cortese includeva così una vasta gamma di possibilità tematiche: adorazione quasi religiosa, analisi dei turbamenti e degli stati d'animo dell'amante-poeta, processo di perfezionamento interiore. Sue convenzioni topiche sono: la lode della donna amata, l'innamoramento per una donna lontana, la figurazione dell'amante silenzioso e in pena, il servizio alla donna, il ricorso ad ambigui riferimenti o alla perifrasi per evitare una chiara identificazione della donna (il cosiddetto, pseudonimo, o senhal). In parecchi casi il poeta adotta uno stile di ricercatezza e allusività oscuro ed ermetico (il trobar clus, "poetare chiuso, oscuro") contrapposto al trobar leu ("poetare chiaro"). La produzione dei trovatori (poeti, dal verbo provenzale trobar, "poetare") provenzali (fine XI - XII secolo) è vastissima. Ci sono giunti 2542 componimenti: un decimo di essi sono adespoti (privi di autore), gli altri si ripartiscono fra 460 autori di cui è noto almeno il nome. Dalla Provenza i temi e i moduli della lirica cortese si diffondono, attraverso i frequenti spostamenti dei trovatori da una corte all'altra, nel mondo germanico, in Spagna e in Italia. In Italia ebbero un'influenza notevole nell'ambito della Scuola siciliana e dei successivi poeti toscani fino al
Dolce stil novo.

Dolce stil novo:

Nato a Bologna fra la fine del Duecento e l’inizio del Trecento. L’iniziatore fu Guido Guinizzelli, seguito da un gruppo fiorentino, come Guido Cavalcanti, Dante Alighieri, Lapo Gianni, Gianni Alfani, Dino Frescobaldi, Cino da Pistoia, ma il rappresentante più insigne fu Dante Alighieri.
Il nome della “scuola” deriva da un passo del Purgatorio di Dante Alighieri. Nel XXIV canto del Purgatorio Dante incontra Bonagiunta Orbicciani, il quale gli chiede la differenza fra i siculo-toscani e gli stilnovisti. Dante risponde che loro scrivono seguendo la diretta ispirazione d’Amore, e dopo di che Bonagiunta dice di aver capito la differenza fra i toscani e “questo vostro dolce stil novo”: di qui il nome alla “scuola”.
Con questa risposta Dante non vuol dire che loro sono più sentimentali dei siculo-toscani, ma che sono capaci di descrivere i cambiamenti psicologici che l’Amore produce nella persona che ama e che esprimono tali sentimenti in forma dolce, atta cioè alla dolcezza del sentimento amoroso.
Dalle scuole precedenti gli stilnovisti prendono alcune tematiche già note:
1) l’esaltazione di Amore come suprema forma di aristocrazia spirituale;
2) l’affermazione che la vera nobiltà non deriva dal diritto di nascita, ma che essa risiede nell’animo;
3) la rappresentazione della donna come figura angelica.
Originale è invece il loro definirsi come  un pubblico nuovo di produttori ed utenti della poesia, come libero gruppo di “cori gentili”, capaci di vivere e intendere la nobilitante esperienza d’amore. Essi fondano la loro superiorità sulla cultura, che è conquista individuale, e formano un gruppo di intellettuali che non coincide più con una corte, ma vive nella civiltà cittadina. Di conseguenza la loro dottrina d’amore non è espressa secondo i canoni del galateo cortese, ma s’ispira alla filosofia insegnata nelle Università, specialmente in quella di Bologna.
Gli stilnovisti intendono definire l’origine e la natura d’amore e riconducono alla vita della coscienza tutte le esperienze amorose, come la gioia, il tormento, la contemplazione, la passione.
In questa ricerca, che coinvolge tutta la coscienza, si avverte l’influsso della filosofia del tempo, specialmente quella di S. Bonaventura, che fu definita la “metafisica della luce”. Secondo questa dottrina la luce, manifestazione dell’Essere Supremo, viene riflessa dalle Intelligenze angeliche motrici dei cieli e dalle creature umane più elevate, che diventano un incentivo per una conoscenza più piena di Dio.
Allo stesso modo la bellezza della donna è simbolo della bellezza di Dio, cui l’anima aspira, e amore è questa ispirazione. Però la donna è pur sempre ispiratrice di passioni, per cui la gioia della contemplazione è sempre insidiata dalla sorda resistenza della passione, donde il rapporto fra amore terreno e amore celeste e la giustificazione del primo sul piano morale e conoscitivo. Questa è la tematica dello stilnovismo, anche se i vari autori esprimono questa ascesa in modo diverso.
Si capisce quindi come ognuno dei poeti segua una propria strada per arrivare a Dio tramite la contemplazione della bellezza della donna, e ciò fa di questi poeti non una “scuola”, dove le rappresentazioni sono corali, ma ognuno rivela una propria identità. La dimensione unitaria della “scuola” si rivela invece nello stile, che si manifesta nel gusto comune di drammatizzare la propria vicenda interiore, di rappresentare la realtà esterna in modo attutito, di rappresentare la donna come un balenare di luce, di ascoltare la propria coscienza, ecc.
A differenza di quanto avveniva nei canzonieri siciliani, si trovano nei testi stilnovisti nomi di donne amate, come ad attestare un impegno autobiografico; così abbiamo la Beatrice di Dante, la Selvaggia di Cino, la Giovanna di Cavalcanti. Ognuno dei poeti cerca di rappresentare la propria vicenda amorosa come un qualcosa di esemplare, ma le varie vicende non sono raccontate seguendo una trama narrativa e le donne cantate non acquistano consistenza figurativa o drammatica, perché donne e vicende non sono che metafore della scoperta della propria anima.
Gli argomenti sono espressi in maniera filosofica e scientifica e ciò fa del dolce stil novo un’esperienza fortemente selettiva nei confronti del pubblico, per cui anche se questo movimento attesta che alla fine del Duecento si era affermata in Italia un’alta cultura laica, non rappresenta la realtà dell’epoca. Tuttavia notevole è il suo significato storico. La rifondazione del mito dell’amore, ricondotto alle vicenda globale della coscienza, delinea la scoperta di una dignità autonoma dei sentimenti umani. Questi motivi, depurati da certe astrattezze, e l’esempio di un elevato magistero stilistico, passeranno nella lirica del Petrarca e di lì in quella posteriore.

venerdì 3 giugno 2011

Francesco Petrarca: La biografia

Francesco Petrarca (Arezzo, 20 luglio 1304 - Padova, 19 luglio 1374) è stato un importante scrittore, poeta ed umanista italiano del Trecento.
L'opera per la quale è maggiormente conosciuto è sicuramente "il Canzoniere".

Nasce ad Incisa, nei pressi di Arezzo, da Eletta Cangiani (o Canigiani) e dal notaio ser Pietro di ser Parenzo (soprannominato Petracco, guelfo bianco amico di Dante esiliato da Firenze per motivi politici), e trascorre l'infanzia in Toscana (prima ad Incisa e poi a Pisa), dove il padre era solito spostarsi per ragioni politico-economiche.

Ma già nel 1311 la famiglia (nel frattempo era nato il fratello Gherardo) si trasferisce a Carpentras, vicino ad Avignone (Francia), dove Petracco sperava in qualche incarico al seguito della corte papale.

Malgrado le inclinazioni letterarie, manifestate precocemente nello studio dei classici e in componimenti d'occasione, Francesco, dopo gli studi grammaticali compiuti sotto la guida di Convenevole da Prato, è mandato dal padre prima a Montpellier e successivamente, insieme con Gherardo, a Bologna per studiare diritto civile.

Morto il padre, poco dopo il rientro in Provenza (1326), Petrarca incontra, il 6 aprile 1327, nella chiesa di Santa Chiara in Avignone, Laura e se ne innamora.

Un amore autentico per una donna reale (come insiste il poeta nelle sue confessioni), del quale non restano tuttavia dati documentari.

Attorno al 1330, consumato il modesto patrimonio paterno, Petrarca si dà alla carriera ecclesiastica, abbracciando gli ordini minori e impegnandosi a osservare il celibato e a recitare l'ufficio.

In tale veste è assunto quale cappellano di famiglia dal cardinale Giovanni Colonna.

Parallelamente alla formazione culturale classica e patristica, cresce il prestigio di Petrarca in campo politico: nel 1335 ha inizio il suo carteggio con il Papa, inteso non solo a sedare le più incresciose rivolte della penisola, ma anche a ottenere il ritorno della sede pontificia da Avignone a Roma.

A questo periodo (1336-1337) risalgono anche la prima visita dell'Urbe, il trasferimento da Avignone a Valchiusa (dove aveva acquistato una casa) e la nascita di un figlio naturale, Giovanno, che muore in giovane età.

All'anno successivo rimonta il progetto delle opere umanisticamente più impegnate, la cui parziale stesura, dell'Africa in particolare, gli procura tale notorietà che contemporaneamente (il 1° settembre 1340) gli giunge da Parigi e da Roma il desiderato invito dell'incoronazione poetica.

L'8 aprile del 1341, per mano del senatore Orso dell'Anguillara, è incoronato magnus poeta et historicus, e ottiene il privilegium lauree.

Questo altissimo riconoscimento, che sarà al centro della battaglia combattuta da Petrarca per il rinnovamento umanistico della cultura, lo spinge a proseguire la stesura dell'''Africa''.

Rinunciato al viaggio romano, si ferma a Parma, ove lo raggiunge la notizia (19 maggio 1348) della morte di Laura, colpita dalla peste così come gli amici Sennuccio del Bene, Giovanni Colonna, Francesco degli Albizzi.

Lasciata Parma, Petrarca riprende a vagabondare per l'Italia fino al 1351, quando, rifiutata ogni altra offerta, rientra  in Provenza, dove scrive le prime Epistole a Carlo IV di Boemia perché scendesse in Italia a sedare le rivolte cittadine.

Nel giugno del 1353, in seguito alle aspre e pungenti polemiche ingaggiate con l'ambiente ecclesiastico e culturale di Avignone, Petrarca lascia la Provenza e accoglie l'ospitale offerta di Giovanni Visconti, arcivescovo e signore della città, di risiedere a Milano. Malgrado le critiche di amici e nemici, collabora con missioni e ambascerie  alla politica viscontea, cercando di indirizzarla verso la distensione e la pace.

Nel giugno del 1361 per sfuggire la peste abbandona Milano per recarsi Padova e poi (1362) va a Venezia, dove la Repubblica Veneta gli dona una casa in cambio della promessa di donazione, alla morte, della biblioteca alla città lagunare.

Il tranquillo soggiorno veneziano, trascorre fra libri e amici, ma è turbato nel 1367 dall'attacco maldestro e violento mosso alla cultura, all'opera e alla figura sua da quattro filosofi averroisti. Amareggiato per l'indifferenza dei veneziani, Petrarca, dopo alcuni brevi viaggi, accoglie l'invito di Francesco da Carrara e si stabilisce prima a Padova, e poi (1370), ad Arquà, un tranquillo paese sui colli Euganei, nel quale, per generoso dono del tiranno padovano, si costruisce una modesta casa.

Da Arquà (dove l'aveva raggiunto con il marito Francescuolo da Brossano la figlia Francesca) si muove di rado.

Colpito da una sincope, muore ad Arquà nella notte fra il 18 e il 19 luglio del 1374. Per volontà testamentaria, le sue spoglie sono sepolte nella chiesa parrocchiale del paese; poi sono collocate dal genero in un'arca marmorea accanto alla chiesa, dove tuttora si trovano.

Tra le sue poesie più belle, "chiare, fresche et dolci acque".

FRANCESCO PETRARCA: Chiare, fresche et dolci acque

Chiare, fresche et dolci acque

Chiare, fresche et dolci acque
ove le belle membra
pose colei che sola a me par donna;
gentil ramo, ove piacque,
(con sospir mi rimembra)
a lei di fare al bel fianco colonna;
erba e fior che la gonna
leggiadra ricoverse con l'angelico seno;
aere sacro sereno
ove Amor cò begli occhi il cor m'aperse:
date udienza insieme
a le dolenti mie parole estreme.

S'egli è pur mio destino,
e 'l cielo in ciò s'adopra,
ch'Amor quest'occhi lagrimando chiuda,
qualche grazia il meschino
corpo fra voi ricopra,
e torni l'alma al proprio albergo ignuda;
la morte fia men cruda
se questa spene porto
a quel dubbioso passo,
chè lo spirito lasso
non poria mai più riposato porto
né in più tranquilla fossa
fuggir la carne travagliata e l'ossa.

Tempo verrà ancor forse
ch'a l'usato soggiorno
torni la fera bella e mansueta,
e là 'v'ella mi scorse
nel benedetto giorno,
volga la vista disiosa e lieta,
cercandomi; ed o pietà!
Già terra infra le pietre
vedendo, Amor l'inspiri
in guisa che sospiri
sì dolcemente che mercè m'impetre,
e faccia forza al cielo
asciugandosi gli occhi col bel velo.

Dà bè rami scendea,
(dolce ne la memoria)
una pioggia di fior sovra 'l suo grembo;
ed ella si sedea
umile in tanta gloria,
coverta già de l'amoroso nembo;
qual fior cadea sul lembo,
qual su le treccie bionde,
ch'oro forbito e perle
eran quel dì a vederle;
qual si posava in terra e qual su l'onde,
qual con un vago errore
girando perea dir: "Qui regna Amore".

Quante volte diss'io
allor pien di spavento:
"Costei per fermo nacque in paradiso! ".
Così carco d'oblio
il divin portamento
e 'l volto e le parole e'l dolce riso
m'aveano, e sì diviso
da l'imagine vera,
ch'ì dicea sospirando:
"Qui come venn'io o quando?"
credendo esser in ciel, non là dov'era.
Da indi in qua mi piace
quest'erba sì ch'altrove non ò pace.

Se tu avessi ornamenti quant'ai voglia,
poresti arditamente
uscir del bosco e gir infra la gente.

giovedì 19 maggio 2011

Giosuè Carducci: Pianto antico

Pianto antico  

L'albero a cui tendevi
la pargoletta mano,
il verde melograno
da' bei vermigli fior,
nel muto orto solingo
rinverdì tutto or ora
e giugno lo ristora
di luce e di calor.
Tu fior della mia pianta
percossa e inaridita,
tu dell'inutil vita
estremo unico fior,
sei ne la terra fredda,
sei ne la terra negra;
né il sol più ti rallegra
né ti risveglia amor.

Giosuè Carducci: La biografia


Biografia

1835 - Giosuè Carducci nasce il 27 luglio a Valdicastello in provincia di Lucca. (Il 27 luglio 1835 nasce il piccolo Giosuè da Michele Carducci, medico e rivoluzionario, e Ildegonda Celli, di origini volterrane)

1838 - Il 25 ottobre la famiglia Carducci giunge a Bolgheri.
(Michele Carducci vince il concorso per medico presso la condotta di Bolgheri dove si trasferisce con la famiglia composta da: il padre Michele, la madre Ildegonda, la nonna Lucia, lo zio Natale, la zia Maddalena, il piccolo Giosuè ed il fratello Dante. Arrivarono una mattina del mese di ottobre in calesse da Stazzema)

1842 - Muore "nonna Lucia".
(Nonna Lucia è una figura determinante nell'educazione e formazione del piccolo Giosuè tanto che il poeta la ricorda con grande affetto nella poesia "Davanti San Guido". Un personaggio indispensabile anche nella vita familiare in quanto riesce a tenere a freno le velleità del figlio Michele)

1848 - Vengono sparate le fucilate contro la casa della famiglia Carducci con conseguente trasferimento a Castagneto.
(Nella notte tra il 21 e il 22 maggio la finestra di casa Carducci viene presa a fucilate da ignoti in seguito all'acuirsi del conflitto tra Michele Carducci e la parte più conservatrice della popolazione bolgherese, capeggiata dal pievano Don Bussotti. Seguono altre fucilate che costringono la famiglia a fuggire da Bolgheri e a trasferirsi a Castagneto, dove rimane per quasi un anno).

1849 - Il 28 aprile i Carducci giungono a Firenze.
(Giosuè frequenta l'Istituto degli Scolopi e conosce la futura moglie Elvira Menicucci, figlia di Francesco Menicucci, sarto militare, e della prima moglie dell'uomo).

1853 - L'11 novembre Carducci entra alla Scuola Normale di Pisa.
(I requisiti per l'ammissione non collimano perfettamente, ma è determinante una dichiarazione di padre Geremia, suo maestro, in cui garantisce: "… è dotato di bell'ingegno e di ricchissima immaginazione, è colto per molte ed eccellenti cognizioni, si distinse persino tra i migliori. Buono per indole si condusse sempre da giovine cristianamente e civilmente educato". Giosuè sostiene gli esami svolgendo brillantemente il tema "Dante
e il suo secolo" e vince il concorso.

1856 - Il 3 luglio si laurea in filologia e filosofia con il massimo dei voti.

1857 - Insegna retorica al liceo di San Miniato al Tedesco; il 4 novembre si suicida il fratello Dante.
(Nello stesso anno compone le Rime di San Miniato il cui successo è quasi nullo, salvo una citazione su una rivista contemporanea del Guerrazzi. La sera di mercoledì 4 novembre si uccide il fratello Dante squarciandosi il petto con un bisturi affilatissimo del padre; mille le congetture. Si dice perché stanco dei rimbrotti familiari specialmente del padre, che era diventato intollerante e duro anche con i figli)

1858 - Muore il padre del poeta, Michele.
(Dopo il suicidio di Dante la salute del padre comincia a peggiorare fino alla morte per cancro. La sua carriera è durata meno di 25 anni, durante i quali aveva dovuto affrontare ben 10 trasferimenti: sempre in rotta, una fuga perenne da se stesso, dalla propria lingua pungente che non rendeva giustizia ai suoi nobili sentimenti).

1859 - Il 7 marzo Giosuè Carducci si sposa con Elvira Menicucci.
(Donna paziente e sottomessa che però rimase accanto al poeta anche nei momenti più dolorosi della sua vita, diventando alla fine un punto di riferimento per Giosuè).

1860 - Il poeta si trasferisce a Bologna dove insegna eloquenza italiana all'Università.
(Trova casa in via del Carbone e fa venire le sue 3 donne: la moglie e le 2 figlie, Beatrice e Laura. Nel nuovo ambiente no lo attraggono ne caffè, ne amicizie: studia con caparbietà e frenesia e si comincia a delineare la sua posizione culturale, artistica e politica).

1870 - Muore il figlioletto Dante.
(Il 9 novembre muore anche Dante con il quale il rapporto è particolarmente tenero perché il bimbo ha una particolare attrazione per il burbero padre. Il Carducci è duramente colpito dalla sua morte: torvo, lo sguardo fisso nel vuoto, si porta dietro il suo dolore ovunque, in casa, all'università, a passeggio. Nel giugno 1871 ripensando al figlio perduto compone "Pianto antico").

1872 - Stesura definitiva della poesia "Idillio Maremmano".
(Durante il soggiorno bolgherese il Carducci conosce Maria Rosa Banchini con la quale instaura una amicizia che con il tempo si trasforma nel primo amore dell'adolescenza che sfocia in un finto matrimonio: un misto di fantasia giovanile e di colore paesano, celebrato a Bolgheri. Vent'anni dopo quel fantasioso matrimonio il Carducci, immerso nella nebbia di Bologna e con il pensiero fisso al sole di Bolgheri, compone l' "Idillio Maremmano" ).

1879 - Prima di una lunga serie di "ribotte " a Castagneto.
(Durante le ribotte il poeta si incontra con gli amici castagnetani con i quali si intrattiene degustando piatti tipici locali, bevendo vino rosso, chiacchierando e recitando i numerosi brindisi composti per quelle occasioni conviviali).

1885 - Il poeta interpreta per la prima volta di fronte agli amici la poesia "Traversando la Maremma Toscana".
(Scenario di quella interpretazione è la Torre di Donoratico durante una delle ribotte più famose, svoltasi nel maggio del 1885).

1886 - Carducci compone la bozza definitiva della poesia "Davanti San Guido"
(Sicuramente la poesia più famosa di Carducci in cui si coglie la consapevolezza di non poter più tornare indietro alla vita semplice di un tempo, e di poter ritrovare la serenità perduta da tanto tempo solo nella morte, come nonna Lucia).

1894 - Termina la lunga serie di "ribotte" a Castagneto.
(E' l'ultimo atto conosciuto di un legame affettivo con la gente e i luoghi della sua Maremma. Le avvisaglie della malattia che già ci sono state, si concretizzeranno 3 anni dopo quando Carducci resta irreversibilmente paralizzato).

1906 - Al poeta viene assegnato il Premio Nobel per la Letteratura.
(Le condizioni di salute non gli consentono di recarsi a Stoccolma per ritirare il premio che gli viene consegnato nella sua casa di Bologna).

1907 - Il 16 febbraio Giosuè Carducci muore nella sua casa di Bologna.
(I funerali si tengono il 19 febbraio e il Carducci viene seppellito alla Certosa di Bologna dopo varie polemiche).

Giacomo Leopardi: L'Infinito

L'INFINITO:

Sempre caro mi fu quest'ermo colle,
e questa siepe, che da tanta parte
de l'ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quiete
io nel pensier mi fingo; ove per poco
il cor non si spaura. E come il vento
odo stormir tra queste piante io quello
infinito silenzio a questa voce
vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei. Così tra questa
immensità s'annega il pensier mio;
e il naufragar m'è dolce in questo mare.